HomeCulturaartiVISIONI, SILENZI E MENZOGNE. PERSONALE DI PINO MASCIA AL PARCO DELLE ARTI DI MOLINEDDU

VISIONI, SILENZI E MENZOGNE. PERSONALE DI PINO MASCIA AL PARCO DELLE ARTI DI MOLINEDDU

Ai confini dell’impero / 75

VISIONI, SILENZI E MENZOGNE. PERSONALE DI PINO MASCIA AL PARCO DELLE ARTI DI MOLINEDDU-OSSI

Sempre molto volentieri ospitiamo Mariolina Cosseddu, critico, storico dell’arte che presenta la personale di Pino Mascia.

L’artista, profondamente innamorato del suo lavoro con conoscenze non comuni nelle tecniche della scultura, della scenotecnica e nell’organizzazione di eventi culturali nel settore artistico, come in una vecchia ma attuale “bottega d’arte” ama trasferire questa conoscenza nell’insegnamento, come docente dell’accademia di belle arti di Urbino.

La sua programmazione didattica è lo specchio della sua esperienza lavorativa come testimonia il nostro Critico  : La vita dei luoghi e la responsabilità dell’arte come strumento di intervento nel sociale diventano, per Pino Mascia, dovere etico, impegno di interazione con la comunità,  messaggio di bellezza nella conciliazione tra artificio e natura. (R.P.)

PER PINO MASCIA a cura di Mariolina Cosseddu

Se la scultura è, per Pino Mascia, audace passione in cui investire il proprio sapere e la propria abilità tecnica, è anche sempre più il luogo in cui si manifesta l’urgenza di risposta alla realtà contemporanea, ai  dilemmi e ai travagli del quotidiano. Il linguaggio scultoreo è, nella storia dei mezzi espressivi, quello che più di ogni altro mostra il suo carattere ambiguo e pericoloso: legato per un verso alla grande tradizione classica (che preme sempre alle spalle) ha, dall’altro, subito nel tempo le metamorfosi più singolari e ibride spingendosi verso soluzioni sorprendenti e spiazzanti. Consapevole dei rischi e delle infinite possibilità di questo strumento, Pino Mascia ne ha fatto un territorio da attraversare con un bagaglio culturale e tecnologico di rara dimestichezza sino a giungere a forme plastiche che conciliano passato e futuro. 

Facciamo un passo indietro: gli esordi dell’artista romano di nascita (ma con radici in Sardegna) e urbinate d’adozione (dove insegna all’Accademia di Belle Arti) avvengono nell’ambito della pittura. Giovanissimo realizza grandi tele dove il segno rapido e sintetico interpreta in chiave novecentesca la grande pittura rinascimentale aprendola a nuove inquietudini e nuove tensioni formali. In quell’esordio si cela una prassi operativa che, mutato il mezzo, lo impegnerà in sperimentazioni sempre più ardite ma con i piedi ben piantati nella storia. Vale a dire che si farà sempre più chiaro, nel suo percorso artistico, la necessità di rilettura dell’antico inteso come memoria radicata nella coscienza eppure conciliata, quella visione dell’antico,  con  una  ricerca tecnologica spinta fino a risultati eccezionali. D’altra parte la sua attività teorica (è autore di diversi testi) accompagna e sostiene una poetica che coniuga prassi e teoria in una indagine serrata su materiali, strutture, forme di un’estetica in bilico tra atemporalità e tempo a venire.

 

Ancora una precisazione: una parte fondamentale del suo lavoro riguarda l’opera a destinazione pubblica. Tra gli anni ottanta e duemila troviamo Pino Mascia impegnato in una concezione dell’arte che, interpretando i luoghi della collocazione dell’opera, giunge a rielaborare archetipi del passato in una dimensione ambientale di grande efficacia visiva. E’ il caso della serie delle “Stele”, strutture geometriche eleganti ed essenziali che, concepite in orientamento inverso rispetto alla tensione verticalistica dell’antico, ne rovesciano senso e destinazione. Annullata la funzione celebrativa e rigidamente simbolica, perpendicolari al terreno, da cui cercano nutrimento, le stele capovolte offrono la base proiettata nel vuoto dello spazio come sostegno a nuovi valori, e dunque a nuove forme  in dialogo con la realtà circostante. La vita dei luoghi e la responsabilità dell’arte come strumento di intervento nel sociale diventano, per Pino Mascia, dovere etico, impegno di interazione con la comunità,  messaggio di bellezza nella conciliazione tra artificio e natura.

 

Da questo punto di vista non sono rare, nella sua ricca e multiforme attività scultorea, figure femminili di chiara derivazione classica ma realizzate con materiali sperimentali che offrono, ancora una volta, motivi di riflessione sul rapporto tra arte e tecnologia, tra arte e estetica del paesaggio. Come “La cattura del sole”, “L’età dei desideri” o, ancora, il “Monumento alla memoria”: sono solo alcuni momenti di una concezione di arte pubblica che mentre dà valore agli spazi della socialità ne esalta la storia e la cultura di appartenenza.

      

Ma la dimensione monumentale trova l’altro versante della medaglia nei piccoli oggetti che Pino Mascia realizza come un controcanto alla visione pubblica indagando la quotidianità nelle sue pieghe più nascoste e apparentemente effimere.

Procediamo con ordine.

L’arte è, dunque, memoria, storia che ci appartiene ma solo se legata alla realtà del presente può essere mezzo di interpretazione del contemporaneo. Per dirla con le stesse parole dell’artista, l’arte mette a nudo “il problema dello sguardo” . Questo nodo concettuale trova la sua concretizzazione nei lavori ospitati a “Molineddu”: “Visioni, silenzi, menzogne”.  Nei tre sostantivi che definiscono l’esposizione c’è, abbreviato, il processo stesso che sostiene la poetica in mostra. 

Lo spazio chiuso del Parco delle arti diventa luogo ideale per accogliere le piccole sculture che allineate sulle pareti rivelano un altro aspetto del complesso e multiforme lavoro di Pino Mascia.

 

Saponi, meglio, saponette di ceramica, sono disposti come su un piano tipografico a raccontare una storia che conosce molteplici possibilità di visione. Questo oggetto semplice e umile è, in realtà, in grado di offrire uno sguardo sulle civiltà più vasto e reale di quanto non si creda. I saponi di Marsiglia, che derivano da quelli di Aleppo, hanno alle spalle una storia lunga seicento anni, una storia di viaggi, di guerre, di progressi, di conquiste. Eppure, l’Occidente si è impadronito di una pratica che, in Oriente, in Siria esattamente, aveva una tradizione millenaria, di artigianato e di civiltà. La presunta superiorità di una parte del mondo rispetto ad un’altra come vuole la narrazione occidentale si scontra così con una verità occultata strategicamente, a dimostrazione che le menzogne finiscono sempre per alterare le verità che rimangono nascoste. Il lavoro di Pino Mascia, partendo da quegli oggetti carichi di antiche narrazioni, si spinge fino a suscitare una riflessione più vasta sul presente dove  sempre più si annidano informazioni senza senso, bugie seduttive, brandelli di verità labirintiche e spesso indecifrabili. 

Così le piccole superfici dei saponi accolgono, mediante la tecnica della fotoceramica, immagini stampate che diventano sollecitazioni visive, percezioni molteplici che dicono di un tempo, come il nostro, dove niente è certo, tutto in un divenire labile e frammentario, tutto come vuoto a perdere.

Emblema di questo processo, la presenza delle rose, ordinate come sequenza, racchiudono, tra i petali, frammenti di immagini che celebrano bellezza e caducità, eterno e superfluo, piacere e sofferenza. Il più perfetto dei fiori, il più desiderato, il più delicato, si fa dunque allegoria reale della dialettica tra la persistenza delle immagini che cela e la fragilità della porcellana che le contiene: in ultima analisi, metafora universale di eros e thanatos, di vita e morte.

Al centro dello spazio un inginocchiatoio è un invito al silenzio e alla riflessione. Manufatto duplice e complesso, luogo di preghiera e di penitenza, si trasforma in appoggio per rilievi di ceramica dipinta. Questi, riprendendo composizioni di purezza neoclassica, le impegnano in un colloquio con forme grafiche contemporanee, segni, parole, simboli, e le rivitalizzano in un gioco di richiami estremamente sollecitante. Ancora una volta le cose ci appaiono in movimento di senso e di mutazione: mai identiche a se stesse, si trasformano sotto i nostri occhi, perché lo sguardo non è mai univoco e mai veritiero nella sua unicità. Come pennelli trasformati in proiettili o piccoli solidi geometrici in sfaccettate superfici iconografiche. Verità e menzogna si inseguono e si perdono, si confondono e ci confondono nell’effimero scenario del presente. 

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