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BAMBINI ELETTORI?

Il dubbio / 127

SERVONO ANCORA I NONNI?

di Enea Di Ianni

 

 Si spara, si soffre, si muore.

Dopo aver trascorso secoli alla ricerca della “Pace”, almeno così lasciava intendere, l’uomo torna a giocare alla guerra. Una sorta di gigantesca ansia da prestazione lo spinge a cercare pretesti, occasioni per dare sfogo all’ istinto di offesa. Sì, di offesa perché tendente a non considerare più il valore dell’altro, dell’altro uomo che, improvvisamente, diviene giocattolo, bersaglio, ostacolo. Lo si rende comunque nemico da eliminare.

Anche i bambini giocano alla guerra, ci hanno sempre giocato. Si fingono indignati, offesi e pronti ad offendere. Sembrano incattivirsi sul serio, tanto è l’ardore e l’impegno bellico che accompagnano le sequenze del momento ludico. A sentirli pure il tono della voce sa di aggressivo.

Le sopracciglia  si inarcano, i gesti diventano veloci e, apparentemente, capaci di far male sul serio. Sfrecciano da un lato all’altro dello spiazzo di lotta, quasi un palcoscenico improvvisato per dare possibilità di vita ad uno sfogo di energia in eccesso.

Osservandoli a distanza pare non fingano, proprio no. Sono seri, profondamente seri e compresi nella mimica del momento al punto da suscitare preoccupazione in qualunque adulto che, all’esterno della scena, si ponesse ad osservarli.

Quello lo eliminiamo subito , perché è stanco. Quello continuerà a darsi da fare solo a metà gioco. Quello lo buttano fuori. Quello ha gli occhi anche di dietro: guarda a destra e batte a sinistra. Quello sta cadendo apposta, perché vuole eliminare quei due. Quello si offende, litiga, si mette a piangere… Non credete alla resistenza di questo piccino: sono evidenti lo sforzo, il nervosismo delle reazioni, la variabilità del ritmo, le pause nella sua fretta apparentemente decisa. Forse ha fatto una scommessa, ha qualcosa da dimostrare, è rivale di quello là a sinistra, che tiene d’occhio costantemente…[1]

Sono riflessioni che scrive, nel suo “Diario del ghetto”, Janus Korczak, poeta e medico, ma anche, a parere di Bruno Bettelheim, “uno dei più grandi educatori di tutti i tempi”, convinto sostenitore e difensore dei diritti dell’infanzia e del rispetto della sua integrità e unicità.

I bambini giocano, giocano e fingono, fanno finta di essere altro da sé a seconda del momento, della situazione, dell’interesse, del luogo.

Fingono, per un po’, di essere qualcos’altro da quel che sono per poi tornare ad essere se stessi, di nuovo amici come e più di prima, felici di vedere le vittime risollevarsi e gli aggressivi sciogliersi in abbracci veri, segni autentici di pace.

I bambini uccisi a Gaza e in Cisgiordania non si sono rialzati, non sono tornati a guardare il cielo e neppure ad abbracciare i propri cari.

Non sono tornati ad assaporare la vita. Non giocheranno più quei bimbi, hanno smesso di crescere e sognare, hanno smesso di vivere perché l’uomo adulto, quello “erectus”, ha deciso di giocare alla guerra, ma a modo suo. Eppure anche lui, il giustiziere, da bambino avrà giocato alla guerra, sarà caduto e, poi,  tornato a rialzarsi; a gioco finito, di sicuro, avrà sorriso al suo finto carnefice e si sarà dato da fare nell’aiutare i compagni a risollevare  le finte vittime. E oggi?

Oggi avrà avuto la forza e il coraggio di guardarle quelle vittime non finte, quei bimbi e quelle bimbe straziati? E quegli occhi, spenti per sempre, possibile che non l’hanno toccato? Puo’ essere?

E’ con il cuore pesante che scrivo questi messaggi da Gaza, sotto l’incessante bombardamento che ha travolto le nostre vite e reso il più semplice diritto alla vita una lotta…

…Di notte, i bambini siedono al buio, nell’oscurità, chiedendo se vivranno fino al mattino…  Non ho risposte da dare ai miei tre figli piccoli su ciò che accadrà… Vorrei essere un supereroe, per portare i miei figli a vivere in pace…”

Qualcuno, magari lontano da quegli scenari e da quel clima di morte, può chiedersi come mai in tanti siano restati lì. Già, perché un padre, una madre e dei figli sono restati lì pur paventando la possibilità del peggio?

“…il mio profondo legame con la terra in cui sono nato, cresciuto e di cui ho innumerevoli ricordi mi hanno tenuto qui!”[2]

Eccolo il motivo: il profondo legame con la propria terra, con gli affetti, coi ricordi, ma anche l’indomita  speranza che gli esseri umani possano cambiare, crescere d’animo e, magari, innamorarsi davvero, e non solo a parole, della pace vera e della vita.

Proviamo, per un momento, a chiudere gli occhi, a spegnere, solo un istante, il sonoro dei nostri ambienti familiari e proviamo a calarci nel silenzio di quelle vittime innocenti, anche neonati, mortificate, senza colpa, anche con la decapitazione.

Orrore per gioco? Per generare terrore? Per privare di futuro degli innocenti?

Ma  l’emancipazione dov’è?

Si sono tentate e avviate tante rivoluzioni in nome dell’emancipazione della donna, dei diritti dei lavoratori, del rispetto e del valore delle diversità, della dignità di ogni essere umano. Soprattutto di ogni bambino e bambina.

La mortificazione inflitta dalla strage di Gaza  all’infanzia tutta ci riporta indietro di tanto e pesa davvero molto renderci conto che la maturazione della coscienza degli adulti sia apparentemente in progressione.

Basta un episodio, un solo gesto, che oltraggi un bambino per dare la dimensione di quanto sia ancora tanta la distanza  che separa noi adulti dal considerare tutti i bambini degni di essere trattati da pari a pari con noi.

Noi adulti, i cosiddetti maestri di vita, stranamente (o volutamente?) finiamo col complicare la vita proprio a chi ci sta chiedendo di essere accompagnato a vivere. Dovremmo prenderla a cuore tale richiesta e, invece, siamo ancora in tanti a disattenderla, addirittura incattiviti a tal punto da privarli, in modo barbaro, della vita.

Sarà, forse, perché i bambini non sono elettori che gli adulti continuano, ancora oggi, a non riservargli  le attenzioni che meritano?

 

                              [1] Korczak Janusz, “Diario del ghetto”, p. 34, Luni Editrice Milano, 1997

                               [2] “Save the Children”: Testimonianza, da Gaza, di un operatore in fuga con 3 figli

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