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LA TEORIA DEL ” GIUSTO SALARIO” È ANCORA VALIDA?

Valore & Valori / 126

LA TEORIA DEL “GIUSTO SALARIO” E’ ANCORA VALIDA ?

                                                                                                                di Mario Travaglini

 Il salario minimo è da mesi al centro del dibattito politico. Il tema è stato ripreso e affrontato anche dal CNEL, il più inutile e costoso ente pubblico italiano, che con una memoria del Consiglio di Presidenza lo ha bocciato scrivendo che “………non serve per il lavoro povero”. Vorrei rimanere sulla questione spostando però l’asse di interesse dal “salario minimo” al salario giusto”, essendo quest’ultimo il contenitore del primo. Allora, la domanda preliminare che occorre porsi è la seguente : “Se il lavoro di un dipendente può essere svolto in modo più efficiente utilizzando strumenti che migliorano la produttività, la teoria del “salario giusto” è ancora valida?

Il concetto di “salario giusto” o “salario onesto” esiste da secoli. Risale almeno al Medioevo e si basa sull’idea che le merci debbano essere vendute ad un “giusto prezzo” sufficiente a pagare “un salario ragionevole che consenta sia ai salariati che ai piccoli artigiani e commercianti di vivere con dignità”. Ai nostri giorni, il termine “salario dignitoso” è spesso usato per riferirsi all’idea di un salario giusto. Ma qualunque sia il termine utilizzato, può essere riassunto come l’idea che un datore di lavoro deve pagare ai propri lavoratori un salario sufficiente a coprire interamente il costo di un “tenore di vita dignitoso”. Nel Medioevo questa idea influenzò a lungo anche la teologia morale cristiana, portando molti  teologi cattolici ad insistere sul fatto che i datori di lavoro fossero moralmente obbligati a pagare un “giusto salario”. In pratica ciò significa che anche se il valore di mercato dei frutti del lavoro di un dipendente scende al di sotto del suo livello salariale, il “bene comune”, l’equità” o la giustizia sociale vietano al datore di lavoro di ridurre il reddito del lavoratore. In altre parole, il datore di lavoro “deve” al lavoratore un certo stipendio, per ragioni di giustizia, anche se questo stipendio non riflette la sua reale produttività. Tuttavia, quando introduciamo il concetto dell’automazione, ci rendiamo subito conto che la teoria del salario giusto presenta una grande lacuna. In effetti, la teoria del salario equo implica che se il lavoro di un dipendente può essere svolto in modo più efficiente utilizzando strumenti di miglioramento della produttività, allora la sua retribuzione può essere giustificatamente ridotta, fino ad essere ridotta anche a zero quando il lavoratore viene  licenziato e sostituito da una macchina. Ad esempio, se undici lavoratori dotati di pale possono essere sostituiti da un solo uomo alla guida di una  ruspa, allora questi dieci lavoratori cessano di essere necessari per il lavoro svolto dall’azienda. Il datore di lavoro potrebbe quindi licenziare i lavoratori in eccesso e i teorici e sostenitori più entusiasti del giusto salario non ci troverebbero nulla di sbagliato. Ne consegue che  una volta che un lavoratore viene licenziato, il datore di lavoro non ha più la responsabilità morale di fornirgli un reddito adeguato. La sua sussistenza diventa quindi responsabilità dello Stato attraverso programmi sociali o associazioni di beneficenza. Diventa chiaro,quindi, che questa  teoria  è contraddittoria e incoerente in quanto il datore di lavoro deve solo un “salario dignitoso” ai dipendenti che non sono ancora stati sostituiti da tecnologie che migliorano la produttività e non anche agli altri. Allora, se i principi alla base della teoria del salario giusto sono corretti, bisogna concludere che i lavoratori sostituiti dalle macchine dovrebbero perdere immediatamente il diritto ad un salario decente.

L’unica vera differenza tra un dipendente licenziato e un dipendente che riceve uno stipendio ritenuto “troppo basso” è che chi è stato licenziato non può più andare a lavorare anche se lo desidera. È costretto a cercare un altro lavoro. Il dipendente “sotto retribuito”, invece, conserva la possibilità di cercare un altro lavoro o di continuare a percepire lo stipendio rimanendo nell’azienda dove si trova . Pertanto, è il lavoratore che continua a percepire lo stipendio a beneficiare della situazione più comoda, poiché può scegliere tra diverse opzioni. Al dipendente licenziato resta solo una possibilità: cercare un nuovo lavoro. Se dobbiamo credere, quindi, alla discutibile teoria del salario giusto, il datore di lavoro avrebbe responsabilità solo nei confronti del lavoratore che riceve un salario.

Uno dei motivi per cui la teoria del giusto salario non ha una risposta a questo paradosso è che sarebbe ovviamente disastroso sostenere che i datori di lavoro debbano pagare i salari anche ai dipendenti il cui lavoro è stato reso obsoleto dall’innovazione tecnologica. In realtà, la maggior parte delle innovazioni che incidono sull’occupazione e sui processi produttivi portano alla disoccupazione di breve termine e spingono i lavoratori a riqualificarsi in un altro settore. È comunemente accettato che queste innovazioni aumentino il tenore di vita del maggior numero di persone riducendo i costi di produzione. Al di là dell’impatto a breve termine, i lavoratori interessati possono seguire una formazione e trovare un nuovo impiego. È così che funzionano le cose da millenni. Tuttavia, la teoria del salario giusto, se portata alle sue logiche conclusioni, implicherebbe che la sostituzione dei lavoratori con macchine agricole, bulldozer o robot più efficienti andrebbe contro il bene comune e la giustizia sociale, perché queste innovazioni riducono la necessità di manodopera in alcuni settori, portando ad una riduzione delle retribuzioni al di sotto del “giusto salario”. In altre parole, se la teoria del giusto salario fosse davvero attuata fino in fondo, porterebbe a mantenere l’umanità a un livello minimo di sussistenza, condannandola a sopravvivere utilizzando solo strumenti obsoleti.​

La teoria del giusto salario appare ancora più incoerente se teniamo conto del fatto che l’innovazione e l’automazione non sono le uniche ragioni legittime per cui un datore di lavoro potrebbe voler licenziare un lavoratore. Ci sono molte altre situazioni possibili e anche i sostenitori del salario giusto possono capire che è assurdo chiedere al datore di lavoro di continuare a pagare un “salario dignitoso” in queste situazioni. Ad esempio, un manager aziendale potrebbe decidere di modificare la propria attività per ridurre il proprio fabbisogno di manodopera. Potrebbe trasformare un ristorante tradizionale in un ristorante a buffet, evitando così la necessità di impiegare camerieri e hostess. Questo proprietario di ristorante dovrebbe essere costretto a pagare un “giusto salario” ai suoi ex dipendenti, ora inutili? Un simile suggerimento è chiaramente assurdo. Tuttavia, se lo stesso imprenditore decidesse invece di tagliare i propri stipendi per ridurre i costi pur mantenendo il tradizionale servizio al tavolo, i sostenitori del “salario giusto” si affretterebbero a dire che “deve” ai suoi dipendenti uno stipendio più alto. Se invece questo ristoratore decidesse semplicemente di licenziare il suo team di hostess e camerieri, non potrebbe essere accusato di pagare loro salari troppo bassi.

Recentemente questa tendenza ha subito una notevole accelerazione con  l’ascesa dell’intelligenza artificiale e la progettazione di robot industriali sempre più complessi in grado di costruire automobili o addirittura preparare pasti con sempre meno supervisione umana. Amazon, per  esempio,  utilizza in modo crescente la robotica per spostare le merci nei suoi magazzini, come anche Tesla  ed altre realtà imprenditoriali minori legate alla logistica. Concludendo: poiché oggi la nostra vita quotidiana è condizionata dall’automazione e da ondate continue di innovazione tecnologica, mi piacerebbe assistere ad un cambio di paradigma dove i sostenitori del salario giusto,cambiando idea, chiedano di sostenere l’adozione di un salario di base universale in modo che i lavoratori abbiano un reddito adeguato al costo della vita.

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