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GLI ALBERI COME MAESTRI: TROPPI OGGETTI E POCA NATURA

Il Limite/39

di Raniero Regni

Chi possiede almeno cinquant’anni di memoria cosciente può ricordare l’esistenza di una società in cui gli oggetti erano pochi. Sia in casa che fuori, il mondo era popolato più da esseri umani, da animali, da piante che non da macchine o manufatti industriali. 

Gli oggetti fabbricati in serie, oltre un certo numero, diventano un sistema che non ha più un valore utilitaristico, e non soddisfa più neanche il desiderio di possesso. Gli oggetti sembrano possedere una vita propria che prolifera e si riproduce. Essi diventano poi simulacri, ovvero immagini di immagini, e la realtà viene completamente divorata dalla simulazione fino a scomparire. Quindi oggetti e schermi più che natura. 

G. Debord alla fine degli anni ’60 denunciava che il mondo vissuto si era allontanato in una rappresentazione propria della società dello spettacolo, il reale era sostituito dallo spettacolare. J. Baudrillard, dieci anni dopo osservava come lo spettacolo stesso fosse diventato un simulacro, un segno che non rimandava più ad alcuna realtà. Gli oggetti dominavano oramai il soggetto umano ma poi scomparivano a loro volta divorati dalle immagini. Dalla produzione si passava allo spettacolo e alla seduzione per poi scomparire nella simulazione. Nella società dei simulacri non c’è più l’originale, per cui non è possibile una rappresentazione, ma ci sono solo copie di copie. È la tirannia dell’identico. Questo è accaduto a partire dalla fine del secolo. A quel punto la realtà umana e quella naturale scompaiono in un gioco di specchi che però trova oggi nel limite ecologico la sua tragica fine. 

Oggi, nella società delle reti e dei media digitali, quegli senari previsti dai sociologi immaginifici che abbiamo citato, il virtuale sostituisce davvero il reale ad ogni livello, il segno non rimanda ad un referente ma ad un altro segno fino all’iper-realtà. Le immagini rimandano solo ad altre immagini e così gli oggetti ad altri oggetti.  Questo comporta la sostituzione dell’essere umano con un essere totalmente artificiale. Il simulacro con nasconde la verità ma l’assenza della verità. Il reale si scioglie nel virtuale. Il pensiero diventa l’intelligenza artificiale, il linguaggio diventa il digitale, il corpo diventa codice genetico, il reale diventa tempo reale e alta definizione. Questo porta alla scomparsa dell’umano e del naturale. 

I nostri figli e nipoti conoscono molte marche di indumenti, giochi e giocattoli ma non conoscono affatto i nomi di piante ed animali. L’artificializzazione della nostra vita ha subito un’ulteriore accelerazione con la Didattica on line e con lo smart working. La digitalizzazione significa smaterializzazione e questa coincide con una denaturazione che appare anch’essa come una forma di disumanizzazione. Come scrive un grande neurobiologo vegetale, S. Mancuso, “noi animali rappresentiamo soltanto un misero 0,3 % della biomassa, mentre le piante l’85%. È ovvio che qualunque storia sul nostro pianeta abbia in un modo o nell’altro le piante come protagoniste”. Sono loro la fonte della vita su questo pianeta e andrebbero conosciute e raccontate, essere oggetto di studio a scuola e fuori da parte dei bambini e dei giovani. Ma noi adulti continuiamo invece ad intossicarli di consumo e di oggetti artificiali. Chi pensa mai di regalare una pianta ad un bambino? Ma neppure si regala più un microscopio, con il quale si potrebbe osservare la brulicante vita animale e vegetale anche in un semplice metro quadrato di giardino. Nutrendo l’intelligenza ecologica (D. Goleman) e l’intelligenza naturalistica (H. Gadner) che pure tutti possediamo potrebbero fiorire, è proprio il caso di dirlo,  le vocazioni di future generazioni di studiosi e amanti della vita naturale. Come successe tanti anni fa a quel bambino che si appassionò alla vita delle formiche diventando uno dei più grandi mirmecologi e biologi di tutti i tempi, E. O. Wilson. Ne parlo perché il grande naturalista di Harvard è scomparso a 92 anni qualche giorno fa. Lui scrisse che distruggere la foresta pluviale per profitto è come bruciare un quadro del Rinascimento per cuocere la cena. E’ stato lui a rendere famoso ed urgente il concetto e il termine di biodiversità. I suoi libri fondamentali come Biofilia, andrebbero letti e studiati e da essi andrebbe derivata una pratica educativa conseguente. Così come la sua idea di “consilience”, di grande convergenza tra i saperi umanistici e quelli scientifici potrebbero davvero rappresentare un gigantesco deposito di conoscenze creative capaci di animare una riforma scolastica, impantanata invece nell’irrilevanza dell’accertamento delle competenze e sigillata all’interno degli edifici scolastici. Una scuola che non utilizzi gli ambienti naturali come laboratori e l’intera città come aula non può svolgere il suo lavoro. Ma dire queste cose adesso, con tutte le norme sul Covid appare come un’inutile provocazione. 

Lo studio del mondo delle piante potrebbe dare un contributo anche al cambiamento di paradigma necessario per affrontare il presente. L’idea di un mondo competitivo che vede la battaglia incessante tra predatori e prede, se ha una sua qualche validità per il mondo animale – anche se viene messo oramai in discussione anche lì – sembra non averne nessuna per il mondo vegetale. Gli alberi collaborano fra loro e sono legati dal mutuo appoggio. Un bosco è un’enorme comunità connessa che collabora attraverso gli innesti radicali sotterranei con cui i singoli individui si scambiano ciò di cui hanno bisogno. Non la competizione quindi ma la collaborazione è alla base della vita. Questo ci insegnano le piante, gli alberi maestri. 

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