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IL CERVELLO PROATTIVO (parteSECONDA)

PARTE SECONDA

Benessere psicofisico /  69

Il Cervello proattivo (continua da n. 68)

di Lorena Menditto

Il cervello in quanto organo proattivo è influenzato dalle conoscenze degli artefatti precedentemente apprese e di fatto ricostruisce attivamente un processo in cui il cervello è coinvolto nel confronto delle informazioni sensoriali che si accordano con modelli generativi interni, quello che finora ho detto in altre parole. 

Il confronto tra il modello di funzionamento generale e l’immagine percepita con il coinvolgimento dei processi di social cognition (insomma il nostro Mario) può generare un segnale di errore nel cervello, che di fatto modifica il modello di base. La riduzione del bias al livello di rappresentazione di persona, oggetti e azioni potrebbe far emergere la causa più probabile della sensazione (Bar, 2004), ossia l’associazione contraddittoria non semantica di “la sigaretta non mi piace, ma nella mano di Mario, si”. 

Il processo di percezione sociale (i.e. social cognition e perspective taking) risulta essere così molto impegnativo per il cervello predittivo, che potrebbe utilizzare le proprie rappresentazioni motorie per prevedere le azioni altrui e minimizzare i bias, che naturalmente si generano nei tre livelli di rappresentazione della persona, degli oggetti e delle azioni; i modelli predittivi (Kilner, 2011) suggeriscono che, osservando qualcuno che esige un’azione, il nostro cervello genera previsioni dall’alto al basso (prior) utili a spiegare l’input iniziale sensoriale. 

Alto verso il basso, che è poi un lontano modo dire con cui si identifica una visione distaccata dell’altro, ma in realtà la visione del prior ci aiuta davvero a prendere nel campo visivo tutto ciò che serve all’occhio, per capire se è compatibile o meno con il nostro corpo.

In uno Studio sull’empatia professionale ho riportato alcune esperienze che aiutano a capire la determinazione di questo articolo. Stavo, studiando l’empatia professionale nel mio ambiente di lavoro, e partivo da alcune ipotesi che di fatto poi non hanno portato ad alcun evidente risultato sull’empatia, che non sapessi già. La ricerca è così, cerchi qualcosa, sperando di trovarla. Ma nella ricerca non si butta via nulla e dopo alcuni anni ho riguardato i dati e ho scoperto che le emozioni veicolate nei test erano state valutate con la lente sbagliata. Nell’approccio del 2019, che ricorda in effetti il determinismo di Hussler, avevo ritrovato l’equilibrio tra la forma e la sostanza dell’empatia, orientandomi verso la decodifica di una dimensione, quella del sentire l’altro, che non credevo potesse essere naturalmente posseduta come dote, ma che trovava la sua piena identificazione fenomenologica, nella distinzione tra l’unipatia e il contagio emotivo. 

Fin qui tutto sensato e racchiuso in rassicuranti teorie, quelle teoriche e bellissime, che fanno stare al sicuro ogni ricercatore. 

Ma mancava qualcosa allo Studio. 

In realtà anche Io ero caduta nel tranello deterministico del tipo: “gli uomini sono sempre gli uomini”, “le donne sono più emozionali e più sensibili” e ancora “gli uomini non piangono, le donne si”, e mentre giungevo alle

conclusioni, considerando stabile il dato sulla varianza di genere, con la letteratura giusta al mio fianco, quella di Baron-Cohen e di Hoffmann che confermavano le mie evidenze, proprio mentre discutevo i dati finali, in una conferenza tenutasi nella mia Università, un quesito legato alla varianza di genere, mi ha convinto a fare un supplemento di ragionamento. Ho ripensato alle caratteristiche dei profili individuali che emergevano riguardo le donne e ragionato se, questi ultimi, potessero essere stati condizionati dallo strumento di somministrazione. In forza del mio dubbio ho rifatto i calcoli e aggiunto un test di performance allo stesso campione e all’improvviso la spiegazione giusta era davanti a miei occhi: i dati non mostravano più alcuna significativa differenza tra uomini e donne, come nello studio sperimentale e i punteggi più alti in termini di correlazione di genere, erano da attribuire ad un questionario self response sulla reattività interpersonale, che è come chiedere a qualcuno di dire se quando gli tagliano la strada si arrabbia.

Ovvietà su cui soprassiedo.

Concludevo lo Studio dicendo che andava indagata meglio la sfera della social cognition del campione al fine di valutare se poteva esistere davvero una separazione della sfera attentivo-cognitiva, da quella emotivo-affettiva. 

La risposta fu naturalmente si, andava misurata anche la consapevolezza e la cognizione sociale, e le emozioni correlate allo scambio di empatia erano collegate tanto alla sfera emotiva quanto a quella cognitiva.

Questo per tornare alla dicotomia di partenza nome vs aggettivo. 

Non so bene con certezza come indirizzare le future ali della mia ricerca sul tema, ma oggi so per certo che la capacità predittiva del cervello è un modello, che si può misurare e ha margini di adattabilità. L’intero processo serve per salvare il corpo e la sua qualsivoglia eccitabilità, che sia essa viscerale e interna, oppure esterna quando ci sentiamo minacciati e abbiamo paura, oppure, infine interna, con la parte mentale del modello di Hebb, che abbiamo nominato prima per la latenza del circuito emotivo. 

La conclusione è che siamo organismi preorganizzati, che lavorano con precisione e in anticipo e che le espressioni del volto non sono la regolazione biologica dell’emozione, bensì sono una visione riduzionistica di una complessità ben più ampia.

 

Per contattare l’autore scrivere a:

l.menditto2@lumsa.it

Attualmente sto studiando gli sviluppi di questo studio sull’empatia che troverete indicato come EP-1 (i.e Empaty n.1) con un protocollo sperimentale che ha i seguenti obiettivi:

1) valutare i risultati della forza del prior rispetto al feedback sulla correttezza della previsione; 

2) valutare il rapporto tra presenza versus assenza di attivazione motoria durante l’osservazione delle azioni esecutive che possa riflettere la rappresentazione diretta dell’azione osservata preventivamente dei prior e delle discrepanze tra gli eventi sociali attesi e input sensoriali.

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