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IL SONNO FATALE DELL’UMANITÀ.

IL SONNO FATALE DELL’UMANITÀ.

by Lorena Menditto

Come si arriva, dove si è sempre stati?

Riconciliarsi con i propri genitori equivale a volte ad una paralisi del lavoro terapeutico.

Il pavimento tra me e il paziente trema, ed io mi ritrovo immersa nella stasi di una quiete inferma.

Penso: trattengo la paura o la confesso?

Di solito la trattengo e la tengo per me.

A volte invece la confido la mia paura, abbassando la voce e persino la luce.

Di sicuro accolgo la paura del mio paziente.

E così mi ritrovo a dialogare sul tempo e sullo spazio di un momento sopravvivenze di un antico presagio, che è il cammino della salute mentale. Come diceva Anna Freud (…) quando si ha a che fare con la psicopatologia dell’infanzia, un prospetto descrittivo della sintomatologia è ancora meno proficuo. (…) i sintomi manifesti possono essere identici in significato latente e alla rilevanza psicologica, ed è per questo che non mi occorre classificare nosograficamente, ma ascoltare e aspettare.

Ecco io sono una persona che aspetta.

Mi sono occupata spesso di epigenetica negli ultimi due anni, per affrontare nello specifico, della questione dell’empatia emotiva e fornire le ragioni per quella sopravvivenza al determinismo biologico che il nostro DNA possiede per natura. Ho lavorato molto per approfondire la replicazione sinaptogenica delle cellule neuronali, convincendomi di come l’adulto possa incrementare la produzione di queste cellule speciali anche dopo l’infanzia; e proprio mentre pensavo all’aging, mi sono fermata a riflettere su quanto possa essere esplosiva la questione nel bambino. Le tracce archetipiche della paura del buio, ad esempio, sono evidenti, nella realizzazione della profezia nascosta della violenza bianca: percuotere, maneggiare, ribaltare, strillare, inquinare il passaggio dal mondo solitario a quello universale (Kùhn, 2014) in nome della vita, sono prassi violente e come tali, riconosciute inammissibili anche per la storia giurisprudenziale (art 571 c.p.).     A partire dalla nascita il neonato possiede molte delle chiavi di accesso al suo Sé, senza possederne concreta consapevolezza; vive le immagini, per dirla con Jung[1] in uno dei suoi scritti di rottura con Freud sui simboli della trasformazione, che segna il passaggio ; l’insieme delle immagini protonarrative, quelle del passaggio verso l’esterno e della convivenza nella caverna materna, costituiscono lo strato più profondo dell’inconscio collettivo, retaggio presente potenzialmente in ogni individuo. Esso è il corrispettivo psichico della differenziazione del cervello umano, che si legano tra loro insieme ai sentimenti, in una lunga linea percorribile, che oggi sappiamo essere, il nostro DNA. Le conseguenze mitiche di questi passaggi, – mi riferisco alla discussione sui riti di passaggio di Regni -, tra sogni e realtà costituiscono le basi per la formazione di credenze dell’adulto e nostro malgrado, inesorabilmente, anche delle cosiddette reminiscenze infantili.

La ferita del bambino, reiterata nei contesti opachi della pedagogia nera, si ripresenta anche a distanza di molte decadi da quegli accadimenti dolorosi. Lo spiega bene Korczak in un libro toccante e vero, di come si possa perdere l’ispirazione stando in un ghetto e della sua missione di volersi prendere cura dell’uomo. Come medico, pedagogista e fondatore di una Casa per gli orfani, Egli viveva appieno il dolore di quegli anni della Prima guerra mondiale, e diceva che il bambino aveva dei diritti inalienabili come quello alla vita, alla morte e ad essere se stesso. Un concetto impensabile ancora oggi e che all’epoca fu davvero uno squarcio nel cielo della pedagogia del Novecento, quella della Scuola progressista americana di Dewey, del neoidealismo di Gentile e dell’autorevolezza dell’insegnante, la pedagogia marxista di Makarenko, dove il lavoro e la disciplina servivano a formare il cittadino comunista perfetto. Dovremo attendere Montessori prima di riposizionare davvero il bambino al centro del percorso educativo fine, mostrando a tutti noi come sia l’adulto ad essere egocentrico e che il bambino, basta osservarlo, quando interessato e coinvolto, è egocentrato, polarizzato sul compito e per nulla distraibile.

Tornando alle ferite e considerando in maniera definitiva e certa che l’ontogenesi dei successivi traumi sono da far risalire a queste prime parti di vita, il feto dorme per la maggior parte del tempo gestazionale e come detto da Canestrari, in una rinnovata enciclopedia psicologica scientifica, le prime sensazioni cutanee si localizzano nella zona del viso e solo in seguito, nella zona genitale, intorno all’undicesima settimana nelle mani e poi nei piedi fino ad arrivare, verso la trentaduesima settimana di gestazione, a tutta la zona corporea. Il feto utilizza la sensibilità olfattiva le cui strutture maturano intorno proprio alle prime dieci settimane di gestazione, per il gusto, lo stesso. L’apparato uditivo può dirsi completo intorno alle ventiquattro settimane, ma già verso le sedici settimane si registrano risposte motorie a stimoli acustici e a ventitré settimane si può riscontrare una forma di adeguamento. A circa ventotto settimane la reazione del feto a stimoli acustici non è più solo motoria ma anche cardiaca e ne varia la frequenza. L’apparato visivo è l’ultimo a svilupparsi, d’altra parte è quello che al bimbo nella pancia serve meno, e avviene intorno alle venticinque settimane di gestazione. Il feto apre gli occhi intorno alla ventiseiesima settimana e risponde a stimoli luminosi, attraverso i nocicettori, terminazioni nervose periferiche.

In termini propri di violenza bianca, gli studi sull’inquinamento ambientale e le relative ricadute in ambito di ostetricia patologica (Di Iorio, 2014) mostrano come il feto risulti profondamente compromesso da questo avvelenamento bianco. Negli anni Sessanta nella periferia di Amsterdam, un inceneritore di rifiuti utilizzava rifiuti chimici all’aria aperta, e a distanza di dieci anni in una ricerca trasversale sui dati tossicologici di quella zona, le Autrici hanno potuto registrare la presenza di gravi malformazioni fetali con l’incremento di fessurazioni oro-facciali e di spina bifida nei bambini nati dopo il 1961.

La dolorosa questione della dipendenza da sostanze psicotrope in gravidanza così come l’abuso di famarci, il fumo, le droghe e le prassi violente subìte dalle donne, intaccano patologicamente e dolorosamente il feto, poiché proprio la sensibilità dei nocicettori agli stimoli dolorosi, è in grado di attivare l’esperienza fisica e psichica del dolore.

[1] C.G. Jung, Simboli della trasformazione, tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 1970

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